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Un po di storia su Demanio e Usi Civici

Ogni qualvolta che ci si accinge a ricostruire la storia dei diritti delle popolazioni su determinati territori occorre tornare indietro nel tempo, anche in quello lontanissimo e apparentemente senza significato pratico per le situazioni attuali.
Ciò è necessario, prima di tutto, per entrare nell'autentico spirito e significato della particolare indagine che si va a intraprendere.
Infatti, questi diritti sono imprescrittibili e si sostanziano su beni inusucapibili e inalienabili appartenenti alle popolazioni residenti (jura civium, jura civitatum) fin dai tempi più antichi: "ab immemorabili".
Affondano le radici nel diritto naturale dei popoli di disporre del territorio come di cosa propria, da usare assieme agli altri "condòmini", cioè collettivamente.

La storia delle usurpazioni di questi diritti da parte di pochi e a discapito dei più, è anch'essa antica.
I diritti civici, pur essendo da sempre portati sull'altare della "demanialità" che viene riconosciuta formalmente nel diritto feudale e nel diritto di tutti gli stati europei fino all'epoca "dei lumi", e poi anche dall'attuale costante giurisprudenza dei Commissari, delle Corti d'Appello di Roma e di Palermo (Sezioni Speciali Usi Civici) e della Corte di Cassazione, hanno visto una imperterrita erosione fino a ridurre le terre del demanio civico in Italia alla modesta superficie di circa sei-sette milioni di ettari, o di quattro milioni e mezzo di ettari secondo il Medici, cioè a circa il due per cento del suolo nazionale.

Ciò, non necessariamente e sempre, deve ritenersi una iattura, se si considera che l'economia europea, dalla seconda metà del settecento e fino ai nostri giorni, nelle aree non industrializzate, ha trovato, proprio nell'imprenditoria agricola, la via dello sviluppo economico.
Ma quel che certamente è stato grave per la vita e la dignità delle popolazioni rurali e anche per il benessere della generalità della popolazione, è la perdita per le popolazioni della gran parte delle aree silvo-pastorali poste nelle zone montane o alto-collinari.

La usurpazione di queste aree da parte di pochi non trova giustificazione nella necessità imprenditoriale dell'epoca e si trasforma in un capitalismo parassitario che va a condizionare la vita delle popolazioni rurali obbligandole, persino, a pagare per le aree da fabbricare, dimenticando assolutamente il diritto delle genti ad avere le aree per fabbricarsi la casa (jus casalinandi), per pascere (jus pascendi) e per legnare per il fuoco (jus lignandi).
Ma come è stato possibile, ci si domanderà, che, nonostante tutte le garanzie di legge con la imprescrittibilità dei diritti e la inusucapibilità delle terre civiche, si sia arrivati a privare le popolazioni rurali delle terre loro spesso ancora indispensabili per le attività economiche proprie?!
La risposta si ritrova nella storia del "diritto" occidentale che si è evoluto a beneficio di pochi e a discapito dei più.
Il passaggio dalla cultura della proprietà collettiva a quella della proprietà privata, è stato lento e inesorabile.

A esclusione di rare e non estese proprietà private costituitesi fin dai tempi di Roma, nel medioevo "la proprietà" dei beni agro-silvo-pastorali veniva attribuita all'Imperatore il quale ne riconosceva parte alle Universitas (alle popolazioni di determinate aree cioè alle Comunità, o alle Comuni, o alle universitates) e parte in feudo ai suoi fedeli Signori; ma sempre con l'obbligo di riconoscere alle popolazioni locali l'esercizio gratuito dei diritti essenziali e, talvolta, con pagamento di "fida" per gli altri diritti cosiddetti minori o utili.

L'affermazione di questo diritto medievale europeo, a differenza di quello islamico mediterraneo che attribuisce ad Allah la proprietà rurale e quindi non erodibile, costituisce lo scalzamento alla base della "demanialità" delle terre.
L'Imperatore, diversamente da Allah, era sensibile alle richieste egoistiche dei Signori, che in cambio gli garantivano fedeltà e forza nel potere.
Quindi, pur rinvenendosi nel diritto medievale la difesa dei diritti delle popolazioni sul territorio, inizia proprio in questo tempo la disgregazione dei vastissimi patrimoni terrieri di tutti.

Questa situazione si protrae con infinite lotte tra i difensori dei demani (delle popolazioni) e coloro che volevano trasformare questi in proprietà allodiali.
Il momento più critico per questa fattispecie di proprietà demaniali è nella seconda metà del settecento, e dura fino all'epoca napoleonica, quando con l'eversione della feudalità, le terre civiche, già in mano dei Comuni, vanno ad accrescersi con una quota parte dei demani feudali.
Cioè, aboliti i feudi, i Signori sono tenuti ad affrancare le proprie terre soggette agli usi, assegnando alle popolazioni, e per queste ai "nuovi" Comuni, una parte delle loro proprietà.

Su quanto è avvenuto nell'epoca napoleonica, per quanto riguarda gli usi civici, sembra interessante mettere in rilievo due fatti conseguenti alle riforme introdotte con le nuove leggi: il primo è la considerazione che i cives vengono a disporre di aree più estese di proprietà collettiva, ma perdono il diritto di disporre delle vaste aree dei feudatari sulle quali essenzialmente portavano le proprie greggi e vi esercitavano il legnatico; il secondo è quello che il Comune (o meglio, allora, la Comune), da ente rappresentante la popolazione, cioè che non si sostituiva a questa ed era quindi tenuto ad amministrare i beni "nemine discrepante" (senza che nessuno se ne avesse a lamentare), si trasforma in Ente esponenziale con figura giuridica propria che si sostituisce alla popolazione e governa nell'interesse di questa , rappresentata soltanto da membri eletti, non più necessariamente residenti nell'area comunale.
Non è il caso di disquisire di questi due fatti, ma è utile osservare che la grande innovazione ha notevole ripercussione sulla vita delle popolazioni rurali, arricchendole formalmente e impoverendole di fatto di vasti territori da usare.

Inoltre, e la cosa è ancora più grave per le popolazioni, i nuovi Comuni tendono, sia pure sempre in modo illegittimo, a considerare i beni del demanio civico, cioè quelli appartenenti ai residenti e assegnati loro solo in custodia e da amministrare esclusivamente a favore dei veri "proprietari", come beni patrimoniali, cioè beni dei quali il Comune poteva liberamente disporre.
Non resta altro, ora, che prendere atto di tutto questo, con l'obbiettivo di individuare le situazioni illegittime perpetrate dai privati, non senza responsabilità delle istituzioni che erano tenute a vigilare sulla integrità dei demani per sanarle, quando è possibile, con gli strumenti offerti dalla legislazione vigente, o per operare la reintegra dei beni al demanio collettivo, quando ciò non è possibile.
Non è certo opera di poco conto!

Ma spinti dall'obbligo di dover porre rimedio alle situazioni anomale instauratesi nel tempo; con la consapevolezza che la cosa pubblica (nel nostro caso l'Amministrazione comunale e la Regione) deve operare a favore di tutti i cittadini e non di una parte esigua di questi; con la convinzione che la legge non è il fine, ma strumento del vivere civile; 

Geometra Gennaro Cosentino
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